La chimera
Ingresso 3,50€.
Di ritorno in una piccola città sul mar Tirreno, Arthur ritrova la sua sciagurata banda di tombaroli, ladri di corredi etruschi e di meraviglie archeologiche.
Arthur ha un dono che mette al servizio della banda: sente il vuoto.
Il vuoto della terra nella quale si trovano le vestigia di un mondo passato.
Lo stesso vuoto che ha lasciato in lui il ricordo del suo amore perduto, Beniamina. In un viaggio avventuroso tra vivi e morti, tra boschi e città, tra feste e solitudini, si svolgono i destini intrecciati di questi personaggi, tutti alla ricerca della Chimera.
La Chimera racconta le vicissitudini di una banda di tombaroli, cioè di profanatori di tombe etrusche e rivenditori di oggetti antichi a ricettatori locali.
Siamo negli anni ottanta. Coloro che decidono di diventare “tombaroli”, di varcare quel tacito confine tra il sacro e il violabile, lo fanno per dare una svolta al passato, per divenire nuovi, altro. Sono indiscussamente uomini, forzuti, giovani, maledetti. Loro non appartengono al passato, non sono figli dei loro padri che sono cresciuti vicino a quelle tombe antiche senza mai violarle. Loro sono figli di sé stessi. Il mondo gli appartiene: possono entrare in luoghi considerati tabù, possono spezzare i vasi, arraffare offerte votive, commercializzarli. Per loro sono solo anticaglie, cose vecchie. Non sono più cose sacre.
L’ingenuità di chi ha seppellito quelle cose li fa ridere.
Anzi, si chiedono come sia possibile che un popolo abbia lasciato sotto terra tutte quelle ricchezze proprio per delle anime… ma quali anime… l’oro se lo vogliono godere, altrochè!
Gli etruschi hanno dedicato la loro arte, la loro maestranza, le loro risorse all’invisibile. Per i tombaroli semplicemente l’invisibile non esiste.
Note di regia
Nel luogo in cui sono cresciuta capitava spesso di ascoltare storie di segreti ritrovamenti, di scavi clandestini e di avventure misteriose. Bastava restare in un bar la sera tardi, o fermarsi in una fraschetta di campagna per sentire di quel tale che col trattore aveva scoperchiato una tomba villanoviana, o dell’altro che scavando di notte vicino alla necropoli aveva rinvenuto una collana d’oro così lunga da poter circondare una casa, e dell’altro ancora che era divenuto ricco, in Svizzera, vendendo un vaso etrusco che aveva trovato nell’orto.
Storie di scheletri e fantasmi, di fughe e di oscurità.
La vita che mi stava attorno era costituita di più parti: una solare, contemporanea, affaccendata, e una notturna, misteriosa, segreta. C’erano molti strati, e tutti ne facevamo esperienza: bastava scavare per pochi centimetri la terra ed ecco che tra i sassi appariva un frammento di manufatto, fatto da altre mani. Da che epoca mi stava guardando? Bastava recarsi nelle stalle e nelle cantine dei dintorni per rendersi conto che quei luoghi erano stati altro, erano forse tombe etrusche, rifugi d’altre epoche, luoghi sacri. Questa vicinanza tra il sacro e il profano, tra la morte e la vita, che ha caratterizzato tutti gli anni della mia crescita mi ha sempre affascinato ed ha dato una misura al mio sguardo. Per questo ho deciso di fare finalmente un film che racconti questa trama stratificata, questo rapporto tra due mondi, probabilmente l’ultimo tassello di un trittico su un territorio che si interroga su una domanda centrale: che cosa fare del passato?
La morte è qualcosa che la nostra società ci impone di affrontare individualmente, al massimo all’interno di una famiglia. Invece, confrontandomi col passato, vedevo un’idea della morte integrata nella vita e nella collettività.