Pubblichiamo questo articolo scritto dal nostro Sandro Battel sul film Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli in programmazione mercoledì 29 luglio alle 21.00 a Fuori dal Cinema, la nostra rassegna di cinema all’aperto.
“Un eroe dei nostri tempi è un filmettino da strapazzo,
scritto in venti giorni, di luglio, tutto scarruffato, in un momento di situazioni tremende e di insicurezza totale. Però è un film concettuale… Alla base del film c’è un concetto che spinge e insiste, è la storia di un uomo che ha paura. Avevo dato come sottotitolo al film appunto La paura”.1
“Sordi era un cagasotto, un fifone che aveva paura di tutto.
E non c’è dubbio che alla base di Un eroe dei nostri tempi
c’è questo suo sentimento. Ancora nel 1996, a Biagi
che in un’intervista per la RAI lo lodava
per la sua magistrale interpretazione di don Abbondio,
Sordi elogiava la paura: «Biagi, la paura non è un peccato.
La paura è lo stato d’animo di una persona normale.
Perchè è normale avere paura. Anzi, io credo più a quelli
che hanno paura che a quelli che sono coraggiosissimi
e che ti spingono, magari, a fare qualche follia.2
“Allora io prendo la bomba, la butto e sfascio tutto!”
Immagino che a molti di noi una buona parte dei personaggi di Alberto Sordi ispiri una certa repulsione. Naturalmente ridiamo, sentendoci migliori di lui e incapaci della sua bassezza d’animo e della sua inconsistenza morale, ma la vigliaccheria, l’opportunismo e il servilismo dell’italiano medio come lui li rappresenta con la persona e la recitazione, ci sembrano – credo – esattamente quello che non vorremmo essere, né come individui né come paese.
Eppure sentiamo che in quell’attitudine qualcosa di vero viene riprodotto, e la cosa ci inquieta perché ci rendiamo conto che proprio lì sembra trovarsi il nucleo di tanti problemi, la chiave del rapporto malato che c’è da noi tra individuo e collettività, viziato da infinite debolezze e minato alla base da una sfiducia cronica e reciproca tra cittadino e istituzioni.
Un eroe dei nostri tempi tocca precisamente questo problema. Come molti altri film di Sordi (e di Sonego), certo, ma in un modo più diretto, perché la paura morbosa di Alberto Menichetti non ha spiegazioni legate alla situazione del personaggio: Alberto sta bene, ha un lavoro, una famiglia (d’origine) e non ha grossi problemi al di là di questa ansia che si porta dentro e lo costringe ad essere meschino e untuoso: sempre, salvo quando crede di potersi permettere di essere arrogante. Potremmo discuterne, ma è probabile che questo personaggio sia tra i “peggiori” Sordi di sempre: si fatica a trovargli una virtù, una qualità positiva, un aspetto del carattere che si possa salvare.
Ma detta così può sembrare che il film si regga su una macchietta, una caricatura. Invece non è così: anche se l’idea centrale non è poi molto consistente e sembra ridursi un po’ alla natura del protagonista, in realtà sono parecchi i richiami al presente e al passato recente che legano in modo diretto l’atteggiamento di Alberto alla mentalità di un paese che non ha ancora imparato cosa sia la libertà.
Attraverso il protagonista il racconto di Monicelli esplora con lo sguardo del senso comune quattro o cinque ambiti della società italiana dell’epoca, mostrando con molta semplicità che in nessuno di essi la modernità riesce veramente ad aprire una prospettiva nuova: le dinamiche del lavoro sono segnate da un autoritarismo refrattario a qualsiasi apertura, con il padrone che sperimenta cautamente il marketing e la tecnologia ma regna sull’azienda come un signore sui servi. La famiglia di provenienza è un polveroso deposito di tradizioni e tare familiari (l’ovetto, lo scialletto, le maglie di lana…), mentre i rapporti di coppia sono resi impossibili da un gioco di finzioni e raggiri, di paure e ritegni che rende impossibile a un uomo e a una donna (per esempio la straordinaria Franca Valeri o la giovanissima Giovanna Ralli) stare insieme e volersi bene normalmente, anche al di là dei comportamenti patologici di Alberto. Da questi meccanismi non è immune neanche il sistema sanitario, intravisto di sfuggita. Ma la peggio sacrificata è la dimensione pubblica, verso la quale veramente il timore e la diffidenza sono i sentimenti prevalenti. In un tempo in cui apparentemente per gli italiani si riapre, pur con mille difficoltà, lo spazio della discussione e la possibilità della politica, la totale mancanza di educazione alla libertà impedisce comunque a moltissimi cittadini, di cui Alberto è esempio e sintesi (“io non ho idee politiche…”), di vivere con dignità la propria appartenenza alla società. L’italiano ha introiettato la paura dell’autorità, l’accettazione dell’arbitrio, l’abitudine al dispotismo. E non cerca mai di superarli alzando la testa e reagendo con ragionevolezza e coraggio: prova invece ad esorcizzarli ricorrendo a precauzioni, stratagemmi e astuzie fatti della stessa pasta dell’autorità. Alla quale alla fine, in uno scontro decisamente impari, si sottomette sperando al massimo in qualche privilegio. Ed è questa attitudine che conduce Alberto ad una discesa fatale e grottesca che lo porta a sprofondare sempre di più nelle sabbie mobili in cui aveva il terrore di finire.
Il mondo è molto cambiato? L’Italia? Certamente. Ma qualche volta assistiamo a fenomeni che qualche perplessità ancora ce la fanno nascere. Siamo più liberi di Alberto Menichetti? Siamo sicuramente molto più capaci di esserlo, percorriamo lo spazio della società e della politica con molte più idee e sicurezza e fierezza. Ma la paura non ci è passata del tutto, non sono sparite la diffidenza reciproca tra cittadino e stato, c’è ancora in giro gente che la bomba la vorrebbe buttare e/o che vorrebbe spaccare tutto, al di là del paradosso per cui per decenni (forse secoli) l’attentato dinamitardo è stato il contrassegno dell’anarchismo, ma poi in realtà nella storia d’Italia alla fine le bombe vere le ha messe chi aveva l’obiettivo di suscitare la paura per ristabilire poi l’ordine a proprio modo. E se oggi siamo così, abbiamo serie ragioni per credere che sia anche perché è da lì che veniamo, dalle ansie e dalle astuzie di Alberto. E certamente Sordi ha avuto una straordinaria capacità naturale di percepire, raccogliere e riprodurre i vizi degli uomini del suo tempo, forse anche perché, appunto, in una certa misura gli appartenevano. Ma lo sguardo critico, la spietatezza dell’ironia, la capacità di ritrarre un mondo pensandone uno diverso, ricordiamoci che sono quasi del tutto di Rodolfo Sonego (ab).
P.S. 1
Oltre (naturalmente) ai film e al libro di Tatti Sanguineti da cui sono tratte le due citazioni iniziali, libro grosso e abbastanza costoso (26 euri) ma molto divertente, per conoscere (scoprire) Rodolfo Sonego potete andare su Google e digitare: Come ridevano, i racconti di Rodolfo Sonego. Google vi manderà ad una pagina di Raiplay in cui si presentano le trasmissioni dedicate da Sanguineti a Sonego. Andate sulla sx e cliccate su “puntate e podcast”, quindi nell’elenco delle puntate, sempre sulla sx, cliccate su Come ridevano, i racconti di Rodolfo Sonego, dove finalmente trovate le puntate (10 di circa mezz’ora l’una) ascoltabili e scaricabili, con molti passaggi delle lunghe interviste da cui è stato tratto il libro e con interventi di decine di meravigliosi protagonisti della storia del cinema italiano, tra cui l’altro grande sceneggiatore veneto, il trevigiano Luciano Vincenzoni, lo scrittore di Signore e Signori di Pietro Germi.
P.S. 2
Due quiz. Il primo è facile: il film segna l’esordio nella recitazione di qualcuno che nel tempo avrà una certa importanza e notorietà nel cinema italiano. Vediamo se capite di chi si tratta (non vale guardare sullo smartphone, notate che non abbiamo fatto capire se è uomo o donna).
Il secondo dovrebbe essere meno immediato. Ad un certo punto nel film c’è una specie di “cameo”, di presenza del regista e dello sceneggiatore. Come quando Hitchcock compare per pochi secondi nei suoi film, ma meno: una cosa piccolissima. Vediamo se ve ne accorgete.
1Rodolfo Sonego in: Tatti Sanguineti, Il cervello di Alberto Sordi – Rodolfo Sonego e il suo cinema, Adelphi, Milano 2015, p.164.
2 Tatti Sanguineti, Il cervello di Alberto Sordi – Rodolfo Sonego e il suo cinema, p.163. La trasmissione di Biagi citata è Il fatto del 7/4/1996