Abang Adik

I sobborghi di Kuala Lumpur sono microcosmi popolosi, ricchi di colori e storie spesso dure e tragiche ma con un soffio vitale di speranza. Questa è una di quelle storie. Abang è un ragazzo muto senza documenti d’identità che gli diano la possibilità di un lavoro legale. Accetta il suo destino a differenza del fratello minore Adi che ha un aggressivo desiderio di riscatto. Un incidente sconvolge l’equilibrio del loro rapporto.
Note dal 25° Far East Film Festival
Uno dei grandi temi del cinema è stato, da sempre, quello della fratellanza. I legami familiari, i legami tra fratelli sono stati oggetto di storie memorabili fatte di delicate vicinanze ma anche di contrasti estremi, violenti, con gelosie e vendette.
Quella raccontata nel film Abang Adik non è una storia memorabile in questo senso, non è una storia epica, non ha nulla di eroico ma è una storia di fratellanza umana tra due giovani uomini ai margini che forse nemmeno condividono un vero legame di sangue.
Non è importante sapere se Abang e Adik siano “veri” fratelli, se siano nati dagli stessi genitori perché loro stessi sono la loro famiglia. Sono apolidi.
Con il volto dell’attore e modello taiwanese Wu Kang-Ren, Abang nasce muto e il suo unico obiettivo nella vita è quello di lavorare sodo, cercare una stabilità, una casa, un lavoro, una posizione e dare un senso alla propria esistenza, mentre il fratello minore Adik (interpretato dall’attore e cantante malaysiano di origini cinesi Jack Tan), si rifiuta di cedere al proprio destino, vende documenti falsi, si fa pagare per fare sesso, fa a botte, frequenta persone poco raccomandabili. Adik vorrebbe andare via!
Entrambi sono originari della Malaysia ma vivono senza carta di identità, senza diritti, esclusi dalla società.
Il film di Jin Ong ci racconta subito questo contrasto che riflette quelli più ampi della stessa Kuala Lumpur dove si svolge la storia. Metropoli gigantesca e tentacolare, a Kuala Lumpur convivono ampi contrasti, di lingue, culture e razze diverse, tra immigrati e nativi, tra ricchi e poveri, e i poveri sono spesso senza identità. Nel film si parlano quattro lingue diverse: mandarino, cantonese, malese e inglese. La popolazione di origine malese detiene il potere politico e controlla la polizia e quella di origine cinese e cantonese produce, spesso, “senza alzare lo sguardo”.
Abang e Adik non sono mai usciti da lì, in realtà non sono mai usciti dal quartiere di Pudu Pasar sede dell’antico mercato della città, umido, puzzolente e affollatissimo. Lì vivono anche i personaggi secondari del racconto: la dolcissima transgender di nome Money, l’emigrata dal Myanmar innamorata di Abang – ma costretta a rientrare nel suo paese –, e l’assistente sociale Jia En, una ragazza giovane e agguerrita che fa del suo meglio per aiutare i residenti emarginati a richiedere le carte d’identità legali. Jia En, cercando di aiutare i due fratelli, combatte la sua battaglia, senza remore e paure. A tutti i costi.
Con uno stile di regia elegante e sicuro, Ong – è sorprendente che sia alla sua prima esperienza dietro alla macchina da presa – ci racconta la storia attraverso le immagini e la lingua dei segni, fisica e gestuale, conferendo al racconto un’evidenza espressiva ancora più potente. Quello del regista è un racconto principalmente visivo, senza troppe parole dove lo sguardo è impreziosito dalla bellissima fotografia dell’indiano Kartik Vijay, fatta di colori caldi e avvolgenti e dalla colonna sonora di Katayama Ryota, giovane talento della musica di origini giapponesi ma attivo in Malaysia.
Jin Ong nasce infatti come produttore musicale e poi cinematografico. Dopo aver prodotto il bellissimo Shuttle Life (2017 con Jack Tan e Sylvia Chang) decide di scrivere e dirigere il suo primo film e lo fa coinvolgendo talenti di varie nazionalità e provenienze, la produttrice esecutiva è Lee Sin-je (Angelica Lee), star malaysiana conosciutissima a Hong Kong e Taiwan.





